LAZIO, LA REGIONE ETICA

Indice

Il confronto con la legge nazionale

Reminescenze fasciste

Declamazioni ed obiettivi

Il testo nel dettaglio

Corpi in ostaggio

Problemi giuridici

La proposta di legge regionale “Riforma e riqualificazione dei consultori familiari” presentata da Tarzia e altri 39 firmatari (quattro PD) ridisegna la fisionomia dei consultori nel Lazio, ma ha in realtà ben altra ambizione: quella di rifondare i rapporti fra il pubblico potere e gli individui, e quelli fra l’ente pubblico e le formazioni sociali intermedie,  assegnando rilevanza pubblicistica a famiglie e associazioni, secondo un progetto che prelude all’avvento di un’era nuova – anzi vecchia, ma in pieno revival: l’era della Regione Etica.

Per meglio spiegare gli intendimenti della proposta Tarzia e la sua portata complessiva, svolgo prima un breve confronto con la legge nazionale che governa la materia, la l. 405 del 1975 e poi con alcune leggi del Ventennio che ne ricordano da vicino il linguaggio e la struttura.

Successivamente passerò ad un esame, prima d’insieme, poi analitico, dell’articolato presentato da Tarzia.

Il confronto con la legge nazionale

Delle numerose leggi degli anni settanta che hanno cambiato la condizione delle donne nella società italiana, dall’introduzione del divorzio alla depenalizzazione dell’aborto, la legge 29 luglio 1975, n. 405, istitutiva dei consultori familiari, è forse quella più piana nella sua ispirazione laica. Sebbene definisca i consultori come ‘familiari’ e ponga l’enfasi sulla procreazione responsabile, la legge afferma per la prima volta nel diritto dello stato la separazione fra riproduzione e sessualità femminile, accogliendo quella tensione culturale e politica verso la liberazione sessuale che era l’anima del movimento delle donne (e che neppure nella successiva l. 194 troverà un riconoscimento altrettanto limpido).

Messa a confronto con la controriforma proposta dalla maggioranza Polverini, salta agli occhi la diversità di ispirazione sotto tre profili: il linguaggio e l’approccio laico, i valori fondanti, il ruolo attribuito al pubblico nei suoi rapporti coi privati.

a)     All’interno di un impianto molto semplice (l’articolato è di soli otto articoli piuttosto brevi), connotato da un linguaggio assai asciutto, l’art. 1 subordina il raggiungimento del fine della procreazione responsabile al “rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti” e menziona fra i suoi scopi “la tutela della salute…del prodotto del concepimento (c.n.)” senza tentarne la personificazione. Anche l’ulteriore competenza del consultorio, “la problematica minorile”, è presentata con linguaggio privo di accenti paternalisti.

b)     Sotto il secondo profilo, valori fondanti della legge appaiono l’autodeterminazione in materia sessuale e procreativa e una visione non più comunitaria ma individualista –  e dunque ‘moderna’ – dell’istituzione famiglia, in linea coi motivi ispiratori della riforma del diritto di famiglia, approvata in quello stesso anno. Quest’ultimo carattere emerge nel riferimento alla famiglia, ma anche alla coppia, alla coppia, ma anche al singolo, quali destinatari dei servizi apprestati dal consultorio. D’altra parte anche la garanzia del rispetto alle convinzioni etiche, ecc. è riferita “agli utenti” e non alle famiglie. Il solito linguaggio asciutto chiarisce poi che alla base del conseguimento dello scopo della procreazione responsabile sono “le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo”, dunque un principio di autodeterminazione nella sfera sessuale e procreativa. Non è inutile infine ricordare l’accenno alla tutela della salute della donna, grande assente della proposta Tarzia.

c)      L’ultimo profilo secondo me illuminante dell’entità della controriforma che la proposta Tarzia aspira ad attuare, sta nel rapporto che la l. 405 prefigura fra Stato e utenti, da una parte, e fra ente pubblico e operatori o associazioni private, dall’altra. Quanto al primo punto, i servizi, come già chiarito, sono prestati dal consultorio nel pieno rispetto della libertà di scelta degli utenti: lo Stato assicura dunque un’assistenza non venata da paternalismo –attitudine che si manifesta quando lo stato sceglie al posto degli individui in quanto questi ultimi si presumono non in grado, in talune circostanze, di individuare e perseguire ciò è il loro effettivo interesse. In secondo luogo, la vocazione pluralista della legge comporta la legittimazione di altri enti, pubblici o privati, a gestire servizi di consultorio, senza definirne la vocazione ideologica, né altri caratteri che non siano la natura di enti che non perseguono fini di lucro.

Il contrasto con la proposta di legge Tarzia è fortissimo. A cominciare dal linguaggio, apertamente ideologico tanto nella relazione introduttiva, quanto nell’articolato. Non a caso la relazione chiarisce subito che i nuovi consultori non sono più deputati a fornire una serie di servizi alle famiglie (non ai singoli, non agli utenti) in modo asettico (sic!), ma a sostenere e promuovere i valori etici di cui la famiglia è portatrice. A seguire una serie pressoché infinita di espressioni dal sapore marcatamente propagandistico/eticista: la (inedita) bioetica familiare, la vita nascente, il concepito “già membro della famiglia”, la famiglia istituzione prioritariamente votata al servizio della vita, il suo compito generativo, la fecondità quale sua dimensione elettiva, il “vigilare sulla famiglia” quale (“delicato”) compito del consultorio, cui si aggiunge la preparazione della coppia al matrimonio e al rispetto della vita fin dal concepimento, il sostegno prima al “progetto di famiglia” che deve durare nel tempo, poi alla stabilità familiare, la cultura familiare di cui devono essere portatori i consultori, pubblici o privati che siano, la prevenzione dell’aborto quale responsabilità precipua del consultorio; ma altre ancora se ne potrebbero citare.

L’approccio laico e pluralista della l. 405 è scientemente soppiantato dall’opzione  confessionale. Potrebbe dirsi che la proposta Tarzia inaugura la dimensione regionale dello Stato Etico.

Di conseguenza i valori o paradigmi che sono al centro del nuovo sistema regionale sono opposti rispetto a quelli adottati dalla legge nazionale: l’accento si sposta dall’individuo alla famiglia secondo un’ottica comunitaria quasi ‘preliberale’ e la Regione Etica interviene attraverso il consultorio nella vita delle persone secondo un progetto che neppure è paternalista, ma squisitamente autoritario: messa da parte l’autodeterminazione individuale o della coppia, l’assistenza del consultorio è espressamente deputata ad imporre agli utenti i valori del più obsoleto familismo, incentivando il matrimonio e le nascite, prevenendo i divorzi e gli aborti, concentrando il lavoro di cura anche di anziani e disabili nelle famiglie, così da alleggerire il pubblico di questi compiti.

Tutto ciò è realizzato attraverso un ribaltamento del rapporto pubblico/privato quale abbiamo conosciuto con l’avvento della costituzione repubblicana. Famiglie e associazioni non sono più prese in considerazione e tutelate in quanto “formazioni sociali in cui si svolge la personalità” umana (art. 2 cost.), ma come agenti della Regione deputati all’enforcement del codice morale della maggioranza che la governa. Il linguaggio è anche in questo caso esplicito: la famiglia è definita “soggetto politico” che garantisce i diritti inviolabili della persona ed è dunque sovraordinata agli individui che la compongono attraverso un capovolgimento del rapporto che la costituzione pone fra art. 2 e art. 29. Ma soprattutto assume una connotazione pubblicistica che ricorda la dottrina giuridica in auge nel Ventennio. Analogamente, sono attribuite alle associazioni di famiglie e alle organizzazioni non profit “che promuovono la stabilità familiare, la cultura familiare”, ecc., finalità che sono assunte “come fini pubblici” (art. 2).

Reminiscenze fasciste

Indubbie le reminiscenze fasciste. Quest’ultimo profilo ad es. richiama da vicino l’impianto della legge Falco sulle comunità israelitiche (R.D.L. 30 ottobre 1930, n. 1731, Norme sulle Comunità israelitiche e sull’Unione delle Comunità medesime), legge con la quale il fascismo opera una saldatura fra ebraismo e stato, creando e imponendo l’Unione come elemento di raccordo delle comunità, che da una parte, consente un più penetrante controllo dell’autorità governativa, e dall’altra, afferma il principio della formazione sociale intermedia come entità sostanzialmente attratta nell’orbita statuale, necessario anello di congiunzione fra Stato e individui. Similmente la proposta Tarzia stravolge il favore della costituzione nei confronti delle formazioni sociali intermedie quale luogo privilegiato di sviluppo della personalità individuale e di esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali, facendone uno strumento di controllo e di propaganda del potere pubblico: dichiaratamente la longa manus della Regione nell’affermazione del codice etico prescelto. E tralascio le scontate osservazioni sul carattere confessionale delle associazioni portatrici di ‘cultura familiare’ cui la proposta di riforma fa aperto riferimento.

Ancor più eclatante la prossimità alla legge fascista istitutiva dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (l. 10 dicembre 1925, n. 2277, Protezione e assistenza della maternità e dell’infanzia), che appare il vero precedente storico del consultorio secondo Tarzia. Sebbene persino la legge del 1925 adoperi un linguaggio più asciutto e meno ideologico del suo omologo del 2010, non mancano le analogie sul piano lessicale, per il ricorrere di espressioni pressoché identitiche, come quella “sorveglianza delle donne gestanti” a carico dell’ONMI, che nella riforma regionale diviene “vigilare sulla famiglia”.  Ma soprattutto è il cospicuo numero di competenze che la proposta Tarzia affida al consultorio, ridisegnato come un moderno Panopticon che sovrintende alla vita delle persone, dal concepimento alla terza età, a farne il diretto erede dell’ONMI – e perciò stesso una struttura sostanzialmente estranea al servizio istituito con la legge nazionale del 1975. Un rapido confronto: assistenza alle madri e gestanti bisognose o abbandonate, ai bambini bisognosi fino al quinto anno, ai fanciulli “anormali”, ai minori abbandonati, traviati o delinquenti fino ai 18 anni; promozione del miglioramento fisico e morale dei fanciulli e degli adolescenti; diffusione di norme d’igiene prenatale e infantile; istituzione di ambulatori per la cura delle donne gestanti “specialmente in riguardo alla sifilide”, di scuole di puericultura e corsi popolari d’igiene materna e infantile (art. 4); vigilanza e controllo (art. 5), nonché coordinamento di tutte le istituzioni pubbliche e private per l’assistenza della maternità e dell’infanzia (art. 6); vigilanza igienica, educativa e morale sui fanciulli minori di 14 anni collocati fuori della dimora dei genitori o tutori; denunzia all’autorità giudiziaria di fatti che possano importare la perdita della patria potestà (art. 10), sono fra le competenze dell’ONMI e delle sue articolazioni locali. La tutela della vita e del concepito, la vigilanza sulla famiglia, la prevenzione della crisi familiare, la promozione della famiglia fondata sul matrimonio (Relazione), numerose funzioni di consulenza, intervento, prevenzione, organizzazione nei settori educativo, giuridico, psicologico, sanitario, socio-assistenziale (art. 5), e specificamente, l’educazione alla “cultura familiare”, alle “responsabilità proprie della società familiare”,  la “preparazione della coppia e della famiglia all’esercizio di doveri di solidarietà familiare e parentale”, all’”esercizio delle funzioni sociali” (art. 6); una consulenza giuridica volta alla soluzione di problematiche relative alla società familiare; consulenza e assistenza in fase prematrimoniale, nell’ipotesi di conflitto fra i coniugi (“anche in sede giudiziaria”), in ordine ad affidamento e adozione, nelle relazioni della famiglia con la scuola, il mondo del lavoro, le amministrazioni pubbliche e private (art. 7); la prevenzione del disagio psichico giovanile e familiare, il contributo alla maturazione psicoaffettiva e sessuale dei membri della famiglia, soprattutto minori (“in collaborazione in particolar modo con gli oratori”) (art. 8), la promozione di metodiche per la paternità e maternità responsabile (art. 9) che si chiariscono poi essere “metodi di regolazione naturale della fertilità” (art. 16), la collaborazione con l’autorità giudiziaria nei procedimenti di separazione e divorzio, nei procedimenti relativi all’invalidità del matrimonio, all’adozione, all’incapacitazione legale di infermi e anziani (art. 12), ma soprattutto la prevenzione dell’aborto, l’assistenza (economica) alla donna incinta (artt. 13 e 14), nonché il supporto alla famiglia nell’accesso agli altri servizi sociali (art. 15), sono alcune delle competenze del consultorio Tarzia. Con una differenza importante: l’attività dell’ONMI è diretta a donne e minori abbandonati e bisognosi, o altrimenti deboli e vulnerabili. Le famiglie non vengono in considerazione come tali, ritenendosi che a benessere, sicurezza e moralità dei loro membri provvedano i capifamiglia, nel quadro di un’organizzazione patriarcale giuridicamente fondata. Per contro la proposta Tarzia è rivolta proprio alle famiglie, incapaci di soddisfare da sole le finalità pubbliche che si vorrebbero loro ascrivere, dopo che la ventata di liberalismo degli anni ’70 ne ha minato alla base la struttura autoritaria. Di qui il tentativo di restaurazione, attraverso una legge apparentemente marginale, di un ordine abolito a seguito di dure lotte, con la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la 194.

Declamazioni ed obiettivi

Certamente il testo della proposta Tarzia prelude ad una legge-manifesto, secondo uno stile che di frequente connota i provvedimenti adottati a livello nazionale dalla maggioranza di governo  (basti ricordare la legge 40 del 2004). Esso cioè dichiara più di quanto non sia capace di prescrivere, sebbene la retorica di marca confessionale di cui fa uso a piene mani trovi poi una ricaduta operativa nel modo in cui sono pensati i singoli servizi del consultorio.

Vanno perciò intese come declamazioni i ripetuti richiami alla tutela della vita nascente, stante la vigenza della l. 194, che ne elide il valore precettivo. Ma è degno di nota il fatto che la proposta di legge non definisca il concepito come soggetto giuridico, ciò che andrebbe oltre le competenze della regione, bensì come membro della famiglia e dunque destinatario dei servizi che la regione eroga.

Altrettanto declamatori sono i riferimenti alla famiglia fondata sul matrimonio, posto che i servizi del consultorio vengono erogati anche alle coppie non sposate. Tuttavia anche qui l’organicità del disegno non è da sottovalutare: è infatti espresso compito del consultorio quello di contribuire alla preparazione della coppia al matrimonio, un intento che ricorda da vicino la campagna fortemente voluta da George W. Bush a metà di questo decennio per rilanciare il matrimonio fra gli strati più poveri della popolazione e rispondere a quelle corti statali che avevano riconosciuto il matrimonio same-sex.

Ciò che merita maggiore attenzione in quanto coerentemente perseguito dalla proposta Tarzia si condensa intorno a tre obiettivi, tutti di grande rilevanza politica. Il controllo del pubblico potere sulla vita perpetrato attraverso l’attività del consultorio per il tramite dell’istituzione familiare, non a caso definita ‘soggetto politico’. La consacrazione delle associazioni che hanno fra le proprio finalità la promozione della cultura familiare, cioè le associazioni cattoliche, che assurgono al ruolo di partner privilegiato della regione nell’implementazione del codice etico fatto proprio dalla maggioranza. L’attacco all’aborto,  che cessa di essere terreno di contemperamento fra interesse alla vita e salute della donna (men che meno materia di autodeterminazione femminile) per diventare lo scenario della crociata integralista della regione, che attraverso il consultorio mira a conculcare la volontà

della donna tra promesse di sostegno economico, procedimenti vagamente intimidatori e patenti violazioni della privacy.

Su quest’ultimo profilo è necessario soffermarsi, anche in considerazione dei profili di illegittimità che presenta. Ma un rapido sguardo alle altre disposizioni è utile per cogliere appieno la portata della controriforma.

Il testo nel dettaglio

L’esordio è declamatorio, ma eloquente del mutamento d’orizzonte voluto dalla nuova maggioranza: il richiamo all’unità e fecondità della famiglia quali oggetti di tutela da parte della Regione implicitamente individua nel contrasto al divorzio e all’aborto obiettivi primari del servizio consultoriale. Soprattutto colpisce lo stridente accostamento fra il rinvio al dettato dell’art. 29 cost. (“la famiglia società naturale fondata sul matrimonio”) e la definizione della famiglia “quale soggetto politico”, posto che nella costituzione quel naturale voleva e vuole essere di contrasto ai tentativi di piegare la famiglia al raggiungimento di finalità pubblicistiche di volta in volta individuate dal potere politico, così come era avvenuto nel Fascismo.

La vocazione confessionale della proposta trova conferma nell’articolo 2 in cui si riconosce non soltanto alla famiglia, ma anche alle associazioni di famiglie che promuovono la stabilità e la cultura familiare la dignità di istituzioni sociali con fini pubblici (ISFP). Tali associazioni sono per ciò stesso legittimate a gestire consultori familiari, nel quadro di un sistema misto che vede affiancati non soltanto pubblico (ASL, Comuni, ecc.) e privato, ma anche il privato con finalità lucrative (art. 3 e art. 21), il che porta a comprendere quale possa essere in futuro l’esito di vicende come quella della RU486, la cui somministrazione nel Lazio è stata rinviata per carenza di posti letto nelle strutture pubbliche. Non a caso, del resto, l’art. 4 prevede che i servizi dei consultori possano essere dati in concessione alle “istituzioni sociali” di cui all’art. 3 (e curiosamente non all’art. 2, che è la norma che le definisce, ma contemplando esclusivamente quelle non profit!).

La missione etica del consultorio (educazione alla cultura familiare, al matrimonio, al rispetto della vita fin dal concepimento) è esplicitata all’art. 6, ma, come si è già visto, il consultorio copre un ventaglio amplissimo di interventi (artt. 5 ss.) ed è pensato come il filtro all’accesso “alla rete dei servizi socio-sanitari” (art. 15).

Un punto delicato sta quindi nella composizione del consultorio e nella formazione del personale addetto. Per la disciplina di quest’ultima si rinvia – salvo l’accenno laconico (ma denso di suggestioni!) alla “conoscenza dell’antropologia della persona e della famiglia” presente nell’art. 10 – a direttive di successiva emanazione.

Il lungo elenco di figure professionali necessarie (consulente familiare-coordinatore, assistente sociale, consulente legale, medico, ginecologo, ostetrica, pedagogista, psicologo, mediatore familiare) fra cui spicca il consulente bioetico (?), è seguito da un’ambigua postilla (“possono..far parte … esperti in discipline antropologiche e sociali, esperti dell’insegnamento dei metodi di regolazione naturale della fertilità, economia e programmazione familiare, oltre che personale volontario…), che è facile immaginare finalizzata a ‘blindare’ l’ispirazione confessionale del consultorio. D’altra parte, il carattere laico del servizio pubblico svapora laddove si prevede che associazioni e enti di diritto privato non profit (non ad es. ordini professionali) possano fornire professionalità ai consultori in virtù di apposite convenzioni, mentre le associazioni familiari di cui all’art. 2 (quelle cioè portatrici di cultura familiare, ossia le ISFP) possono collaborare coi consultori a vario titolo (art. 16), essere integrate dentro le strutture pubbliche attraverso lo strumento del consorzio (art. 17), nonché, come si ricorderà, istituire loro propri consultori ricompresi nel sistema regionale (artt. 2, 3 e 20).

Il carattere autoritario della controriforma è rafforzato, a chiusura dell’articolato, da un affondo sui saperi degno più che di Foucault, del Grande Fratello (quello di Orwell): la Regione istituisce un Comitato Bioetico indipendente che ha competenza sull’operato dei consultori pubblici e valuta “la conformità dei servizi alle norme bioetiche” (art. 26). Ora,  poiché non esistono norme bioetiche oggettivamente date, cioè universalmente condivise, sarà il Comitato suddetto a determinarle per il Lazio, per poi vigilare sul loro rispetto. In ciò sarà forse d’ausilio l’istituendo Fondo Regionale per la ricerca sulla famiglia e sulle problematiche familiari (art. 24) concernente i settori della bioetica familiare (disciplina inaugurata da Tarzia ed esistente nel solo Lazio!), del diritto, della sociologia, dell’educazione, della pedagogia e delle scienze mediche? Non sappiamo se la sistematica tarziana si spinge a tal punto; certo meraviglia che voglia finanziare nuovi (in realtà tradizionalissimi) filoni di ricerca proprio il partito che sta chiudendo gli enti di ricerca esistenti e impegnandosi nello smantellamento dell’università pubblica.

Corpi in ostaggio

Tutto quanto ho sin qui descritto fa da cornice – una cornice, s’intende, fatta di una sostanza spessa, di per sé sufficiente a mortificare ogni legittima aspettativa di esercizio laico del potere pubblico – al cuore della controriforma: l’attacco alla 194 in salsa regionale.

In realtà il rapporto con la legge nazionale si gioca, in principio, nel rispetto delle competenze regionali; sennonché la volontà di imporre il codice morale di cui si fa portatrice conduce la proposta troppo in là, fino alla violazione dei diritti fondamentali della persona. Fino alla negazione dell’autodeterminazione femminile in molti dei suoi aspetti fondanti. Dunque fino all’illegittimità.

Ma andiamo con ordine.

La proposta Tarzia lascia ovviamente invariati i presupposti e il procedimento che secondo la l. 194 conducono all’interruzione volontaria di gravidanza, ma a quello fa precedere obbligatoriamente (così la Relazione) un ulteriore procedimento “di accoglienza”, che a differenza del secondo non ha carattere medico-sanitario. Premessa ideologica un principio che infondatamente si dice costituzionalmente fondato, “il riconoscimento costituzionale primario della famiglia nella sua unità e fecondità” (Relazione), cui fanno da corollari concetti come solidarietà intergenerazionale e socializzazione delle problematiche all’origine della richiesta di IVG (ancora Relazione), che altro non significano se non espropriazione del corpo della donna, in conformità con la missione del consultorio: la prevenzione dell’aborto.

Questo primo procedimento, di accoglienza e di ascolto, prevede da una parte l’esposizione della donna e della coppia alla dottrina del consultorio in merito ai principi del “valore primario della vita, della maternità, della tutela del figlio concepito” (art. 13), dall’altra la “socializzazione” delle ragioni che sono dietro la scelta della donna di abortire, cioè – spiega la Relazione introduttiva – la “riconduzione in seno alla società di problematiche che toccano una delle sue componenti essenziali” (sic!), assumendosi che non alla donna ma alla società competano quest’ordine di valutazioni. Quindi il consultorio  mette a disposizione della donna e della coppia la propria consulenza, le “provvidenze economiche” previste per la maternità (un assegno mensile per un anno, rinnovabile di anno in anno fino al compimento del quinto anno del figlio, ove il reddito non superi la soglia di povertà – art. 14), il sostegno della rete dei servizi sociali, la consulenza per l’adozione o l’affidamento del figlio concepito (?).

Ora, tutto questo è corredato della partecipazione delle varie associazioni familiari, enti non profit, ecc., che in virtù di accordi con i consultori pubblici e privati possono co-gestire (di “gestione concordata” parla l’ art. 13 ult.co.) questa fase: come trionfalmente spiega la Relazione introduttiva, la struttura del procedimento consente una più efficace collaborazione fra consultori pubblici e consultori privati, ma soprattutto prevede l’intervento dell’associazionismo familiare all’interno del servizio pubblico. In ciò è, cito la Relazione, la novità significativa della proposta. Infatti l’obbligatorietà della procedura legittima in via definitiva l’intervento delle associazioni pro life nei procedimenti abortivi, così superando nel Lazio le difficoltà che esse hanno incontrato nell’implementazione della l. 194.

Il procedimento termina con il consenso o dissenso informato della donna (sic) alle proposte del consultorio, che nell’uno e nell’altro caso provvede ad “apposita verbalizzazione”. A questo punto la malcapitata che si sia sottratta alla catechizzazione del consultorio ha finalmente accesso al “secondo procedimento”, cioè all’iter disciplinato dalla l. 194. Ma le cose non sono così semplici. Per il caso in cui il consultorio non sia a conoscenza dell’esito del primo procedimento (ove ad es. la malcapitata utente dichiari di volersi prendere del tempo per riflettere e non faccia successivamente ritorno al consultorio), l’art. 14 gli riconosce il diritto – ed è diritto che compete comunque al servizio, anche laddove non vi sia un consultorio scelto dalla donna – di essere informato di tale esito, perché possa mettere in atto tutti gli strumenti di cui dispone per evitare l’interruzione della gravidanza. Questo comporta in sostanza che la donna che sia sfuggita al Panopticon sia raggiunta e ricacciata dentro le spire del consultorio, che le ricorderà il dovere morale di collaborare per superare le problematiche (quelle da socializzare di cui sopra) che si frappongono alla maternità, garantendole però che le informazioni in tal modo ottenute saranno trattate “con rigorosa riservatezza”. Ma anche di questa fase resterà traccia, come si precisa dopo, in un’apposita documentazione.

Ogni commento suona a questo punto banale. Nel Lazio la maternità si appresta a diventare destino ineludibile della donna e legittima finalità dell’ente pubblico. Rispetto a tanto non ha valore non solo l’autodeterminazione femminile, cioè la scelta della donna di procreare o meno, ma neppure la tutela della sua salute, pietra angolare – compromissoria per molte – della l. 194, incredibilmente ignorata da una proposta di legge che pure intende regolare un servizio socio-sanitario.

Problemi giuridici

Sul piano giuridico vale la pena di spendere qualche telegrafica considerazione. 1) L’espressione consenso informato ha di norma a che vedere con il rapporto medico-paziente, ma qui è evocato nel quadro di un procedimento di cui espressamente si esclude il carattere sanitario e non v’è perciò motivo di tenerne traccia. Ciò vale secondo me a maggior ragione per il c.d. dissenso informato, che non impegnando il consultorio in ulteriori forme d’assistenza, di sostegno economico, ecc. non ha motivo d’essere verbalizzato. 2) Sebbene si sia fuori dall’assistenza sanitaria, il primo procedimento ed anche la fase eventuale prevista all’art. 14 comportano il trattamento di dati sensibili  e dunque richiedono ciascuno un’apposita autorizzazione del Garante della privacy di cui la proposta Tarzia non fa menzione. 3) In ogni caso, l’intero primo procedimento è, in quanto obbligatorio, illegittimo poiché entra in rotta di collisione con la libertà di autodeterminazione della donna (ed eventualmente della coppia), dunque con l’art. 2 della costituzione, con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare), con l’art. 7 della Carta di Nizza. 4) Risibile la previsione del diritto del consultorio ad essere informato della volontà della donna: anch’esso è in patente contrasto con l’autodeterminazione e le norme suddette ed è privo di consistenza giuridica, tanto che il suo esercizio, cioè il contatto con la donna cercato di propria iniziativa dal consultorio può addirittura configurare un illecito.

Infine una questione di portata generale: la possibilità che il consultorio possa figurare da CTU (consulente tecnico d’ufficio) del giudice nei procedimenti relativi al diritto di famiglia e delle persone (interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno) (art. 22). La previsione mira evidentemente ad una saldatura con la magistratura sul piano confessionale, e non è difficile immaginarne le ricadute negative rispetto, ad es., a una certa giurisprudenza incline a far ricorso all’amministrazione di sostegno come proxy del testamento biologico (questo essendo un altro cavallo di battaglia della maggioranza). Sennonché il CTU deve essere scelto dal giudice e non liberamente dal consultorio fra le sue varie figure professionali. Se si ammette che lo scelga il consultorio, un’apposita norma, qui mancante, deve definire i criteri in base a cui lo fa. Ma soprattutto è assai improprio, cioè invade le competenze statali, una previsione regionale che incida in questo modo su una materia che si presuppone uniforme sul territorio nazionale, come la procedura civile.

(Maria Rosaria Marella)